INTERVENTO DI APERTURA AL CONVEGNO VAJONT 2013
Gian Vito Graziano, Presidente del Consiglio Nazionale dei Geologi
Nel ricordare il 50° anniversario della tragedia del Vajont, l’obiettivo primario che ci si pone è certamente
quello di commemorare i 1910 morti di una immane tragedia, la più grande di tutte, quella alla quale le
Nazioni Unite nel febbraio 2008 ha assegnato il più drammatico dei primi posti, quello tra i peggiori cinque disastri provocati dall’uomo.
Ci è apparso sin da subito un dovere morale nei confronti delle vittime, includendo tra queste chi è
sopravvissuto, chi è rimasto a vivere qui, in un’altra Longarone, in un altro Erto, in un altro Casso, in un altro
Castellavazzo, conservando per sempre nel proprio intimo quegli interminabili minuti di morte e di disperazione.
Siamo venuti qui a maggio, abbiamo parlato con la gente, abbiamo capito molte cose che si possono
comprendere solo venendo sui luoghi. Tante altre sono le cose che non riusciremo mai a comprendere,
almeno non sino in fondo, perché è umanamente impossibile comprendere il travaglio di chi è
sopravvissuto ad una morte che gli ha portato via le persone più care, le cose più care e buona parte della propria memoria.
Forse non tutti noi abbiamo mai riflettuto su certe questioni, personalmente non avevo mai percepito il
dolore e l’oltraggio che queste persone hanno dovuto subire dopo quel fatidico 9 ottobre 1963,
all’indomani della tragedia, quando uno Stato che avrebbe dovuto difenderle, prenderle per mano,
incoraggiarle e persino consolarle, ha invece abusato della loro dignità e le ha prevaricate. Sin quando non
mi sono documentato ed ho parlato con la gente, e tra queste permettetemi di nominare la Signora
Carolina Peza, che mi ha raccontato e spiegato tante cose.
Sin quando non ho letto gli articoli di Tina Merlin, l’intraprendente ed umile cronista che si prese cura della
povera gente e delle loro preoccupazioni, diventando parte della storia.
Sin quando non ho letto il libro di Lucia Vastano “Vajont, l’onda lunga”, un libro che indigna e che
commuove, che ti fa riflettere sulle patologie dei sopravvissuti, che solo ora scopro essere del tutto
analoghe a quelle dei deportati dei campi di sterminio descritte da Primo Levi: “l’indicibile che non può
essere raccontato neanche ai propri figli, ferite invisibili, silenzi che durano una vita”.
Il senso dell’anniversario è prendersi cura dei vivi almeno quanto ricordare i morti.
Ma c’era e c’è anche un altro aspetto, anch’esso nobile, che ci ha spinto ad organizzare questo convegno,
che ci ha spinto ad essere qui: quello di mettere sotto la luce dei riflettori la necessità inderogabile della
conoscenza geologica del territorio, priorità assoluta del nostro Paese, dove ancora purtroppo non si è
compiutamente formata una vera coscienza di prevenzione e di salvaguardia ambientale.
Raccontare il Vajont è un esercizio di educazione alla prevenzione.
Noi geologi siamo una categoria giovane, per questo ancora poco radicata nel tessuto sociale del Paese, ma
dinamica al punto tale da aver saputo progressivamente affermare quel ruolo di sussidiarietà che i nostri
saperi ci consentono e ci impongono, svolgendo un ruolo che con orgoglio e responsabilità ci piace definire “sociale”.
La nostra è una professione che fonda la propria credibilità nel nutrirsi di scienza, di quelle Scienze della
terra, che sono, o che dovrebbero essere, fondamento della struttura economica e sociale di un Paese moderno.
Le Scienze della Terra hanno avuto un ruolo progressivamente più rilevante e oggi vengono percepite da
fasce sempre più ampie di popolazione per la capacità di dare risposte in termini di istanze di sicurezza
sismica, idrogeologica, vulcanica, ma anche in termini di sviluppo energetico, di valorizzazione dei beni
naturali e della geodiversità, di salvaguardia delle risorse e tanto altro ancora.
Questo lo si deve soprattutto all’attività di una comunità, quella geologica, che tra ricerca, scienza e
professione si è saputa affermare con straordinaria autorevolezza.
Lavorare affinché questo ruolo venga realmente percepito all’esterno è uno degli obiettivi su cui questo
CNG si sta spendendo, attraverso la comunicazione, attraverso il confronto con le altre professioni,
attraverso la divulgazione, attraverso convegni come questo.
Ma questo, è evidente, non è un convegno come gli altri, qui il rapporto tra la comunità geologica e quella
locale costituisce uno snodo, che rende questo evento ben differente rispetto ai tanti altri eventi ai quali i geologi partecipano quotidianamente.
In questa terra, qui a Longarone, la questione della percezione della geologia come risposta ai tanti
problemi del territorio e dell’ambiente assume ben altro significato e connotati per certi versi addirittura laceranti.
Qui una parte della geologia ha commesso degli errori, li ha commessi nella fase dello studio preliminare
della progettazione dell’opera, se solo si pensa al fatto che la diga non avrebbe dovuto essere costruita
dove è stata costruita, li ha commessi nella fase della costruzione, li ha commessi, forse ancor di più, nella fase dei controlli.
Non nascondiamo queste responsabilità, non ci sottraiamo a queste responsabilità.
Bisogna ammettere che era una geologia diversa, fatta di studi e di ricerche a larga scala, che si svolgeva
soprattutto dentro le Università, ma era una geologia che non sapeva ancora di poter essere applicata
all’ingegneria civile, alle costruzioni, alle strade, ai ponti e alle dighe e persino alla pianificazione
urbanistica. Non esisteva la professione di geologo, non esisteva un albo professionale, mancava un
approccio alle problematiche del territorio che sarebbe venuto molto dopo, col tempo e con l’esperienza.
Tuttavia ci fu chi, scienziato illuminato, capì in tempo e allertò, ma allertò chi non volle sentire.
Non siamo stati soli infatti nell’incredibile susseguirsi di errori che portarono alla catastrofe, ma in
compagnia di ingegneri e tecnici che sbagliarono modelli, che non seppero capire e soprattutto che non
ebbero la forza ed il coraggio di fermare tutto quando era ancora possibile. Ed in compagnia di funzionari
pubblici che non controllarono, che approvarono progetto e varianti, una dopo l’altra, senza porsi molte
domande, senza richiedere un minimo di verifiche, che non diedero ascolto a quegli altri geologi che
avevano capito e che, come detto, allertarono chi preferì non far sapere.
A sbagliare siamo stati in tanti, compresi illustri giornalisti come Indro Montanelli, Dino Buzzati e Giorgio
Bocca, che scrissero di una “sciagura pulita”. Su Il Giorno dell’11 ottobre 1963 Bocca scriveva di una
sciagura dove “gli uomini non ci hanno messo le mani, tutto è stato fatto dalla natura, che non è buona,
non è cattiva, ma indifferente. E ci vogliono queste sciagure per capirlo! Non uno di noi moscerini
resterebbe vivo se la natura si decidesse a muoverci guerra”.
Di recente La Repubblica ha ripreso quegli articoli, definendoli belli, ma sbagliati.
Sono passati 50 anni e non deve restare nascosto più nulla, neanche quelle zone grigie che non configurano
più responsabilità giudiziarie, a tanti anni ormai dai processi e dalle sentenze che seguirono, ma entro le
quali si individuano errori di valutazione e conseguenti decisioni sbagliate di funzionari dello Stato e di noti
uomini di scienza. Cosi come del resto i giudizi che ne seguirono. Impeccabili forse in punta di diritto ma
mai come in questo caso la verità processuale appare distante da quella reale.
Questa tragedia non è solo figlia degli errori per così dire interpretativi, ma è figlia di omissioni e di
superficialità di chi avrebbe potuto mettere a diposizione importanti elementi tecnici di valutazione e non
lo ha fatto e di Organismi tecnici dello Stato che colpevolmente non hanno garantito lo Stato, non hanno garantito cioè i suoi cittadini.
La diga è figlia di un progetto ardito, approvato dal Consiglio Sup. LLPP e più volte modificato, per
aumentarne l’altezza e quindi la capacità d’invaso, senza che lo stesso Consiglio Sup. si sia mai posto il
problema della stabilità di quel versante, quello del famigerato Monte Toc, che era stato già oggetto di
studi geologici corretti e che non aveva dato soltanto dei semplici segnali d’instabilità, ma dei veri e propri
episodi di instabilità, prima e durante la costruzione della diga.
Eppure nessuno volle guardare, nessuno volle approfondire: la geologia, l’ambiente fisico, le condizioni al
contorno erano poca cosa rispetto agli interessi economici in gioco. Ancora oggi troppo spesso la geologia è
poca cosa rispetto agli interessi economici in gioco.
Questo convegno non può limitarsi a ricostruire quel che è successo, ma deve per forza di cose andare oltre e stimolare tanti altri punti di riflessione.
La domanda più ovvia che possiamo porci è se quella tragedia sia servita, se dopo 50 anni si sia fatto tesoro di quel che è successo.
A giudicare dallo stato in cui versa il territorio italiano si dovrebbe dire di no; dopo il Vajont la storia italiana
ci racconta di troppe altri morti e distruzioni, che negli ultimi tempi sembrano diventare persino frequenti.
Dal 2009 ad oggi, negli ultimi 5 anni, dai 37 morti di Giampilieri, assistiamo con una frequenza allarmante
ad alluvioni e frane, che coinvolgono il Paese da Nord a Sud, senza risparmiare città importanti, ricche ed
industrializzate come Genova, aree altrettanto ricche e industrializzate come il Veneto, aree di grandi
tradizioni storiche e culturali e di grande bellezza paesaggistica come la Toscana.
Queste tragedie non sono figlie degli errori della scienza, ma dell’incuria e del saccheggio sistematico del
nostro bel Paese, che non è in grado di darsi una prospettiva di futuro che vada oltre i problemi della finanza e dell’economia.
E’ evidente che questo Paese ha necessità di uno sviluppo diverso, che guardi alla cura del territorio tra le sue priorità.
Noi geologi lo diciamo ormai da troppo tempo. In questi 50 anni abbiamo sviluppato nuove esperienze,
nuove tecniche, frutto di una ricerca che non si è mai arrestata, neanche in questi anni di crisi economica.
Possiamo rivendicare una preparazione scientifica, tecnica e professionale che non è seconda a quella di nessun altro Paese d’Europa e del mondo.
La capacità di leggere le dinamiche del territorio, la sua evoluzione morfologica, la capacità di analizzare, di
definire modelli ed ipotizzare scenari di evoluzione, in altre parole la capacità di applicare i propri saperi alle
esigenze tecniche di una casa, di una diga, di una discarica o di una condotta è una prerogativa dei geologi italiani.
Eppure ancora oggi si pone spesso ostracismo nei confronti di questa prerogativa, quando ad esempio si
continuano a voler affermare, anche sotto il profilo normativo, standard di progettazione che estremizzano
l’approccio ingegneristico, senza pensare di inserire compiutamente l’opera nel suo contesto fisico e senza valutarne le interazioni.
E’ evidente che non tutti hanno fatto tesoro del Vajont, ma neanche delle successive e più recenti tragedie di cui la storia italiana è purtroppo costellata.
La maggior parte delle criticità rilevate nella costruzione delle grandi opere, ma anche in quelle medie e
piccole deriva da una modellazione geologica ora errata, ora scadente, ora persino assente, eppure gli
organi tecnici, anche quelli più importanti e più rappresentativi dello Stato italiano, preposti a valutare
prima di approvare, preposti a porre rimedio e a pretendere sicurezza, sembrano occuparsi soltanto di far
valere, mi si permetta il termine, ragioni di bottega.
Mi si permetta ancora: noi non siamo così, i geologi hanno fatto tesoro del Vajont. La geologia applicata
nasce dal Vajont e dopo il Vajont, ed i geologi vi hanno costruito sopra la propria professione, sotto il
profilo tecnico, tecnologico, scientifico e morale.
Tutti noi che abbiamo studiato Scienze della Terra ci siamo prima o poi imbattuti nel Vajont. Anch’io che
provengo dall’Università italiana geograficamente più distante da qui, ho studiato il Vajont. Nelle nostre
Università, magari con interpretazioni diverse, lo si studia ancora. Per tutti i geologi, per tutti gli studenti e
per le future generazioni di professionisti il Vajont è stato un punto di partenza, ma soprattutto è stato un
monito: mettere la scienza, la ricerca e la professione a servizio del Paese.
Non è un caso che la geologia in Italia, dopo aver consolidato una posizione di ampie competenze sismiche,
idrogeologiche, idrologiche, geomorfologiche, geotecniche, ambientali e di tutela delle risorse, si è da
qualche tempo estesa ai campi delle energie rinnovabili, a quello delle certificazioni energetiche, a quello
delle bonifiche e dei recuperi ambientali, a quello dello stoccaggio della CO2 nelle strutture profonde, a
quello della valorizzazione del paesaggio e della geodiversità.
Sempre e soltanto al servizio del Paese.
Per questo alla gente di Longarone, di Erto e Casso, di Castellavazzo, che dopo essere stata vittima, è stata
poi oltraggiata da istituzioni, da uomini politici, da uomini di apparato ed ahimè anche da uomini di scienza,
chiedo di guardare alla geologia ed ai geologi con un rinnovato sentimento.
Non perché la geologia ed i geologi abbiano fatto qualcosa per voi, ma perché voi, con il vostro
insopportabile fardello di ricordi e di dolore, avete fatto tanto per noi e quello che avete fatto per noi lo
avete fatto al Paese, che ora può guardare ai geologi come a sentinelle di un territorio che tutti insieme
vorremmo più sicuro, più bello, più resiliente.
A voi gente di questa terra bellissima, a voi gente lacerata da ferite invisibili ed insanabili, va tutto l’affetto della comunità geologica italiana.