Catania, 24.02.2015 – Nei giorni scorsi il capo della Protezione civile Franco Gabrielli ha inaugurato in Calabria la mostra “Terremoti d’Italia” approfittando della manifestazione per rilasciare l’ennessimo appello alla coscienza della popolazione italiana: «Non si tratta di fare allarmismo, ma ad uccidere non sono i sismi ma l’opera dell’uomo. Terremoti ce ne saranno ancora. È naturale che ci saranno, ma non sappiamo nè quando, nè dove. Se qualcuno dice che faccio allarmismo, lo denuncio perché la vera tragedia non è il terremoto ma la mancanza di memoria e di prevenzione».
«La cadenza dei terremoti nel nostro Paese – ha aggiunto Gabrielli – presenta attualmente un periodo di eccessiva tranquillità. È naturale, dunque, che ci saranno altri eventi sismici». «Il problema – secondo il Capo della Protezione civile – è che oggi non abbiamo due cose necessarie: tanti soldi e tanto tempo per mettere in sicurezza il territorio e gli edifici. L’unica cosa che possiamo fare subito è la prevenzione, che passa attraverso la conoscenza. È fondamentale, dunque, che i comuni e le istituzioni si dotino dei piani di protezione civile, che non sono quattro pagine copia e incolla che ho preso dal comune vicino, senza neanche cambiare la toponomastica, cosa che è realmente accaduta, ma piani reali che devono essere efficaci in caso di terremoto e che i cittadini devono conoscere. Il 35% dei comuni non c’è l’hanno, mentre gli altri hanno piani solo sulla carta».
Il prefetto ha quindi posto nuovamente l’attenzione sulla scarsa consapevolezza dei cittadini e della pubblica amministrazione verso i rischi naturali.
A gennaio 2014 abbiamo fatto il quadro della situazione in Sicilia dove un comune siciliano su due non ha un piano di protezione civile approvato e aggiornato. Nell’area etnea, caratterizzata da elevati rischi sismico e vulcanico solo il 10% dei comuni pubblica i piani sul web (Vai al post).
Ma se Atene piange, Sparta non ride.
Infatti, anche in tema di rischio idrogeologico la pianificazione deve ancora partorire. Prendiamo l’evento piovoso del 22 gennaio 2015 che ha messo in ginocchio, per l’ennesima volta, la centralissima via Etnea di Catania, invasa da un fiume di acqua che ha causato molti disagi e per fortuna non si sono registrati feriti o vittime.
Ma davvero dobbiamo contare i primi morti per prendere sul serio il problema del rischio idraulico nel centro cittadino? Già nel 2004, nel Piano Stralcio per l’Assetto Idrogeologico (P.A.I.) il tratto finale di via Etnea è stato classificato R4 ovvero con rischio idraulico molto elevato.
Dopo 10 anni dalla redazione del P.A.I., bisogna necessariamente rivedere il piano di protezione civile comunale con nuovi modelli che tengano conto di questi intensi e anomali fenomeni metereologici. Infatti, lo studio del Comune di Catania ha indicato in dicembre 1955 (424 mm), ottobre 1999 (371 mm) e novembre 2003 (361 mm) i mesi più piovosi dell’anno come record storici ma, “ai fini della costruzione di scenari di evento, più che le precipitazioni medie sono significative le piogge intense, per le quali vanno considerati tempi di ritorno piuttosto brevi”. Si pensi agli di 80 mm di acqua in meno di un’ora caduti in città nel febbraio 2013, un dato che risulta tra i più alti mai registrati in città.
Se consideriamo infine il comportamento della popolazione durante questi eventi ci si rende conto di quanto basso sia il livello di consapevolezza del rischio da parte dei cittadini. A poca informazione e formazione corrisponde scarsa cultura della prevenzione. Preferiamo affidarci ancora a Sant’Agata chiedendole di guardarci oltre che dalle eruzioni anche dalle bombe d’acqua (Vai al link).
Quindi, ancora una volta, “speriamo che non succeda mai”!
Ad maiora.
Carlo Cassaniti