La richiesta di permesso dell’Audax comprendeva un’area di 650 chilometri quadrati, che oltre al Banco Avventura, eden sottomarino a 26 miglia dall’isola di Favignana, sfiorava e includeva quelli di Talbot e Pantelleria. Uno dei più importanti ecosistemi del Mediterraneo, nonché area strategica per la riproduzione delle specie ittiche e quindi per il settore della pesca. Un particolare quest’ultimo sottolineato dalla commissione Via del ministero (quella cui spettano i pareri sulle valutazioni d’impatto ambientale) che scrive: “Queste aree di riproduzione sono in grado di sostenere gli stock ittici e il sistema ambientale ed economico dello Stretto di Sicilia nel suo complesso”.
Per tali ragioni, un plauso arriva anche dalle associazioni di pescatori, che hanno dato battagli al fianco degli ambientalisti contro le trivelle. “Siamo felici per questa decisione – spiega Giovanni Basciano, responsabile dell’Agci-Agrital, organizzazione che riunisce diverse cooperative di pescatori – Al di là del valore ecologico, i banchi del Canale di Sicilia hanno un’importanza vitale per la pesca. Installare lì delle piattaforme petrolifere avrebbe significato arrecare un danno economico enorme a un settore vitale per l’economia della Sicilia”.
Lo studio ambientale presentato dall’Audax e rigettato dal ministero era stato realizzato dalla Peal Petroleum, balzata la scorsa estate agli onori della cronaca per le clamorose sviste presenti nelle carte realizzate per conto della San Leon Energy, compagnia petrolifera con un capitale sociale di 10 mila euro, interessata ad un’area di mare di 482 chilometri quadrati tra Selinunte e Capo Bianco. In una relazione di 36 pagine, la Peal scriveva che il “porto più vicino a Sciacca è quello di Ancona”. Coordinatore dell’analisi era Luigi Albanesi, geologo romano a capo delle Peal e, guarda caso, oggi anche amministratore unico dell’Audax srl, sospeso dall’Ordine nazionale dei geologi dal 1981. L’Audax però non si dà per vinta e a sole 20 miglia da Pantelleria, ma in acque tunisine, bombarda il mare a colpi d’aria compressa alla ricerca di idrocarburi.
La tecnica si chiama air gun, molto diffusa tra i cercatori d’oro nero che utilizza delle vere e proprie detonazioni subacquee per rilevare la presenza di petrolio nei fondali, arrecando però gravissimi danni alla fauna marina. “Il no del ministero – dice Alberto Zaccagni, dell’associazione Apnea di Pantelleria, che ha sollevato il caso – ha sicuramente una grande importanza storica, ma sulla difesa del Mediterraneo dalle petroliere c’è ancora molto da fare. Un disastro nelle acque tunisine comprometterebbe per sempre il futuro di questo patrimonio della biodiversità”. E le preoccupazioni degli ambientalisti non si fermano qui. Nel pacchetto liberalizzazioni presentato dal governo Monti, agli articoli 20-21 e 22, spunta infatti la norma già soprannominata “libera-trivelle”.
Un provvedimento che aprirebbe la strada alle ricerche petrolifere sul territorio nazionale, incluso il mare e le sue coste. L’obbiettivo della norma è quello di “consentire nell’immediato di realizzare investimenti di sviluppo pari, nella sola Regione Basilicata, a 6 miliardi di euro, garantendo una produzione aggiuntiva di idrocarburi nei prossimi 20 anni per un valore economico di almeno 30 miliardi di euro ed entrate aggiuntive per lo Stato pari ad almeno 17 miliardi”. A far discutere è inoltre la decisione di avvicinare le piattaforme dalle 12 alle 5 miglia marine (ad esclusione del Canale di Sicilia salvato in extremis dal “no” del Ministero), mantenendo invece invariate le royalties, le tasse che le multinazionali lasciano al territorio. Quelle italiane (appena il 4%) rimarranno tra le più basse al mondo contro l’85% dell’Indonesia, l’80 di Russia e Norvegia, il 60 in Alaska, e il 50 per cento in Canada.